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Il settore pubblico, infatti, nell’ambito degli Stati da qualche decennio in qua è cresciuto notevolmente. Ciò è apparso, ad un certo momento, come il modo migliore per democratizzare la società sotto tutti gli aspetti. E non c’è dubbio, a mio avviso, che questa sia stata la strada giusta per conseguire uno scopo simile.

L’errore semmai è stato quello di averla percorsa male affrontandola con molta leggerezza. Il fatto è che si è scambiata la democrazia con la realizzazione del tornaconto personale per cui, avvalendosi dell’assoluta libertà che essa garantisce ad ogni individuo, si è finito per creare disordine sociale. In tal modo, chi ha approfittato della circostanza, tra l’atro ha violato la libertà degli altri componenti della società. Non si vede ora perché come, ad esempio, avviene in Italia, non si abbia il coraggio di ridimensionare i violatori della libertà altrui, facendo perdere loro i cosiddetti “diritti acquisiti”, onde restaurare la democrazia vera, che consiste nel rispetto effettivo della libertà di ogni singolo componente della società nella protezione dei più deboli perché incapaci di difendersi da soli e nel riconoscimento del giusto premio a coloro che impegnano la loro competenza responsabilmente al servizio della collettività sociale. Hanno fatto un grosso errore coloro che hanno propugnato l’allargamento del settore pubblico nella collettività e non hanno controllato dovutamente il suo verificarsi, ponendo remore ove fosse necessario, e impedendo, almeno con ammonimenti morali se non era possibile un intervento materiale, la deresponsabilizzazione di chi era preposto ad operare l’allargamento del settore pubblico. Perché questo mio pensiero non suoni equivoco e persino scandaloso alle orecchie di chicchesia, voglio chiarirlo ulteriormente.

In Italia, le sinistre, sia che militassero nei partiti sia che non vi militassero ma ivi si collocassero per il loro programma politico, hanno avuto una situazione favorevole dopo le contestazioni studentesche del Sessantotto e “l’autunno caldo” del Sessantanove per realizzare, almeno in parte, le loro idee politico-sociali, ma non ne sono state capaci. Facendo infatti il gioco dei conservatori che, vistasi sfuggire di mano la situazione politica che avevano saldamente dominato fino dalla caduta del fascismo, tendevano a concedere il più possibile alla marea disordinata delle richieste in attesa che i tempi mutassero nuovamente a loro favore, caddero nella trappola, e anziché consigliare prudenza e intervenire a chiarire alla luce della storia la situazione sociale di allora, non ebbero idee precise sul da farsi. Così si verificò che, nonostante i notevoli passi che il movimento operaio riuscì a fare con l’ottenimento dello statuto dei lavoratori, non fu capace di suggerire una via nuova che portasse ad una società migliore in senso qualitativo con tutte le implicanze che il termine comporta. Anzi il movimento operaio stesso ne uscì frammentato in settori disarmonici, per non dire addirittura contraddittori. Gli operai occupati cominciarono ad avere salari discreti grazie alle organizzazioni sindacali. I disoccupati non furono tenuti nella dovuta considerazione, mentre i problemi dei contadini furono ignorati del tutto. La conseguenza fu che si formò da un lato una classe operaia privilegiata, dall’altro una massa, una massa di malcontenti che nutrirono una grande sfiducia e un forte sentimento di rancore nei confronti dei sindacati e un acre invidia nei confronti degli operai occupati. Si aggiunga poi che gli operai occupati usarono male i diritti che erano riusciti a conquistare. Si diffuse tra loro una grave forma di lassismo che ha sconfinato spesso e volentieri nella più detestabile irresponsabilità. Venne di moda l’assenteismo nelle fabbriche, che suscitò dapprima stupore e poi proteste fondate da parte della classe padronale. Ma quel che più stupiva e faceva soffrire coloro che veramente avevano a cuore i problemi della classe operaia e con essa i problemi di tutta la classe subalterna, era il fatto che i sindacati non si decidessero a denunciare questa forma di abuso illecito che avrebbe finito, come poi è regolarmente avvenuto, per ritorcersi a danno della stessa classe operaia. Il sindacato inoltre non seppe assumere quel ruolo di dirigente vero della classe operaia, nel senso che avrebbe dovuto guidarla verso una trasformazione della società chiamando a raccolta anche la piccola borghesia ed aiutandola a risolvere i suoi problemi. Invece non seppe fare altro che abbandonare quest’ultima tra le sue difficoltà, dandole ad intendere che lei non faceva parte della classe operaia e che, di conseguenza, non intendeva prestarle alcuna attenzione. Eppure il movimento studentesco del Sessantotto volle uscire dalle aule scolastiche in cui era nato e agganciare i problemi degli intellettuali e della classe impiegatizia in genere a quelli degli operai, dei contadini, dei disoccupati e di tutto l’insieme della parte più debole della classe subalterna. Cosicché gli studenti parteciparono nelle piazze alle lotte operaie “dell’autunno caldo” nel Sessantanove e negl’anni successivi nella convinzione che tra operai, intellettuali e impiegati non intercorressero più quelle tradizionali differenze che li avevano visti tante volte collocarsi in fronti opposti. La partecipazione del movimento studentesco alle lotte operaie poneva l’esigenza di affrontare i problemi sociali in modo totalmente diverso da come si era fatto fino ad allora, e certamente i dirigenti della classe operaia non seppero assolvere a un compito così arduo e inaspettato. D’altra parte, il movimento studentesco, così brillante nel dichiarare i mali della tradizione, non aveva la capacità adeguata e la preparazione dovuta per indicare i rimedi. La conclusione fu che l’amalgama desiderato tra i problemi degli operai e quelli degli intellettuali non ci fu; e gli uni e gli altri camminarono per la propria via nonostante il manifestarsi di una certa reciproca influenza.