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La democrazia è il regime politico che concede ai componenti della società la maggiore libertà possibile. Essa però fa anche qualcosa in più: infonde nei componenti della società la coscienza di se stessi: ossia insegna loro a conoscere il proprio valore, a considerare qual’è la forza del proprio potere, ma l’induce anche a prendere atto delle manchevolezze e dei limiti che li ineriscono. Di qui nasce la necessità che i componenti della comunità sociale assumano, nei loro modi di agire e di comportarsi, un atteggiamento coerente, nel senso che non devono dare luogo a situazioni sociali contrastanti. Così gli individui e le associazioni, che compongono la comunità sociale, sono liberi di organizzarsi come meglio credono. Tuttavia il loro procedere non può contrastare con le esigenze che servono a tenere unita la comunità. In tal modo devono essere tenute presenti le situazioni locali delle popolazioni che compongono uno Stato. Ma queste possono essere soddisfatte esclusivamente in relazione a quelle nazionali.

La comunità nazionale non ha il diritto di accentrare in se stessa tutti i poteri; di spersonalizzare, per così dire, le comunità locali. Ma anche queste non possono dimenticare di essere organi dell’organismo costituito dalla comunità nazionale. E’ logico e coerente che esse rivendichino il loro interessi politici, economici e sociali; che rivalutino le loro tradizioni etniche, culturali e religiose; ma che facciano valere tutto ciò con la dovuta moderazione. Non possono erigersi in sistemi chiusi, miranti a far prevalere esclusivamente i propri interessi; decise a tradurli in atto anche col ricorrere a mezzi estremi, quali, ad esempio, atti terroristici, rivoluzioni di massa, ecc. . Non nego che tali atteggiamenti insorgono nelle comunità locali per il fatto che, per troppo tempo, la comunità nazionale si è dimenticata di loro, quando non le ha addirittura calpestate, ma sostengo che essi non trovano mai alcuna giustificazione in un sistema democratico. Infatti tale sistema ha, come propria base fondamentale, il dialogo e non lo scontro.


Con il dialogo le varie parti mettono serenamente a raffronto le diverse esigenze. Vedono quali tra esse possono essere soddisfatte senza danno di alcuno dei dialoganti. Graduano i tempi perché tutte le pendenze non vengano eliminate con lo scontro, ma non si fa nulla di tutto ciò. Le sue armi sono l’incomunicabilità, l’intolleranza e la violenza, le quali purtroppo approdano soltanto alla sopraffazione e alla soppressione.

Questo è uno dei momenti in cui la coerenza dei componenti della comunità viene meno, giacchè le comunità locali, che pure sono state bistrattate dalla comunità nazionale, od anche da altre comunità locali con la connivenza della comunità nazionale, non possono ritorcere i torti che hanno subito su coloro glieli hanno fatti, servendosi degli stessi strumenti che sono stati praticati nei loro confronti. Così agendo, le comunità locali praticano l’incoerenza, poichè si servono per ottenere i loro sacrosanti diritti di quegli stessi strumenti di cui disapprovano l’uso nei loro confronti. Il fatto è che, obbedendo al proprio particolare, hanno perduto di vista il fine superiore che le fa esistere, il quale è espresso dalla categoria dell’universalità.

Non è questione di intraprendere delle sottili disquisizioni sul valore dell’universalità o della particolarità – giacchè questo è stato fatto con ingeniosa dialettica da filosofi illustri -, bensì di constatare che l’una senza l’altra è priva di senso. I membri di una qualsiasi comunità sociale sanno bene che, stando per proprio conto, non avrebbero possibilità di sopravvivere. Daniel Defoe scrivendo il Robinson Crusoe, ha adombrato tutt’altro che il vero.

Credere che ognuno possa soddisfare le proprie necessità indipendentemente dalla collaborazione degli altri, è cosa che trova giustificazione solo nelle vicende di un romanzo. Persino i briganti costituiscono delle associazioni ben organizzate per portare a termine le loro imprese criminose. La pluralità dei partiti costituisce certamente il tessuto cognitivo della democrazia; ma la partitocrazia la rende malata e, in definitiva, la porta alla morte. I partiti non debbono mai staccarsi dalla realtà del paese che governo. Tutti i loro atti debbono essere ispirati a risolvere i problemi che esso presenta. In ciò soltanto consiste la validità e la legittimità del loro potere. Purtroppo, però, talvolta lo dimenticano e, anziché gli interessi del paese, perseguono quelli di parte. Sorgono allora i dissidi tra loro e si aprono pericolosi vuoti di potere, che mettono in serio pericolo la stabilità del regime democratico. Tutto questo avviene perché i partiti non tengono conto della loro emanazione, assumendo un atteggiamento contrario alla loro natura, che è di carattere popolare. Essi infatti possono anche essere promossi da gruppi ristretti; ma non riusciranno mai ad acquisire la vera vita, se un movimento popolare non li alimenta. Ne segue che i loro interessi vitali si identificano con quelli del popolo che ne esprime il fondamento. Quando perseguono interessi di vertice, vengono meno alla loro coerenza, correndo seri rischi di morte. Anche la comunità corre allora rischi mortali. Deve perciò reagire con prontezza e richiamare i partiti al compimento dei propri doveri. In tal caso, le istituzioni dello Stato debbono serrare le fila e collaborare strettamente tra loro, di modo che il potere centrale non perda vigore, ma sia anzi presente in tutti gli aspetti particolari della realtà comunitaria. Si tratta, inoltre, di indurre anche il potere economico a perseguire con oculatezza il proprio profitto. Esso infatti non deve attuarsi a scapito delle altre componenti della comunità bensì in armonia con il loro prosperare. Non intendo dire che esso non venga guidato nel suo agire, dagli ordini emananti dal vertice dello Stato, giacchè ciò costituirebbe la sua mortificazione, una camicia di forza che ne impedirebbe ogni fiorire, ma che deve sviluppare una forma di autocontrollo che, pur senza limitarne il profitto in modo per esso handicappante, lo faccia procedere senza danno degli altri componenti. Dirò anzi che deve contribuire alla prosperità sociale della comunità intera. Ma è chiaro che ciò non può avvenire se da parte dei detentori del potere economico, si ricorre ad espedienti che tendono a sfuggire ai gravami che impone il far pare della comunità. Essi non possono, cioè, gridare che si organizzi la società in modo da non ostacolare le manovre economiche che pongono in atto, quando essi stessi eludono il fisco non pagando le tasse. Questo non è un atteggiamento democratico, ma soltanto di comodo che indebolisce la democrazia.


Un ultima annotazione voglio farla sul consumismo. Esso nasce dal libero sviluppo dell’economia, e quindi dalle società a regime democratico. Se tuttavia non viene regolato, porta a profonde contraddizioni sociali che, contrariamente alle immediate apparenze, generano situazioni antidemocratiche. Esso, infatti, mentre infonde in ognuno la voglia di consumare beni di ogni genere nella maniera più larga possibile dando l’illusione che ormai la divisione in ceti sociali diversi non sussista più, approfondisce tale divisione, in quanto i produttori e i distributori delle merci si arricchiscono sempre di più, mentre le masse dei consumatori si impoveriscono ulteriormente. Il consumismo ottiene il suo scopo, creando nelle menti dei consumatori l’illusione che la cosìdetta società dei consumi sia la vera società del benessere e debba essere incrementata senza posa perché è la migliore fra tutte. In tutto questo sembra che non ci sia nulla di antidemocratico. Infatti i consumatori non subiscono alcuna forzatura apparente, giacchè essi tutto quello che fanno, lo fanno spontaneamente e non dietro l’imposizione di chi che sia. E invece le cose non stanno proprio così. I consumatori, con la propaganda che dispiegano industriali e commercianti per magnificare l’utilità e la bontà dei loro prodotti, vengono non solo condizionati psichicamente, ma addirittura alienati, resi cioè incapaci di giudicare autonomamente, poiché il loro spirito e la loro intelligenza vengono ottenebrati dalla martellante pubblicità con cui tali prodotti vengono ad essi presentati. La violenza che produce la pubblicità nella psiche umana, è forse più condizionante e più incidente di quella che esercitano le forzature fisiche, poiché queste costringono ma non convincono, mentre quelle persuadono perché disorientano. Nasce da qui l’esigenza che la pubblicità venga regolata: ossia sia indotta ad assumere un atteggiamento non contraddittorio nei messaggi che trasmette badando esclusivamente alla persuasione che riesce ad infondere nei ricettori dei suoi messaggi e non ai danni che provoca. E’ chiaro infatti che se le si consente di procedere secondo le caratteristiche della sua natura, che sono quelle di portare il soggetto a cui si rivolge alla ricezione passiva dei messaggi che trasmette, la comunità sociale in cui opera viene a subire gravi dissesti a causa degli incerti comportamenti che vi assumono coloro che la compongono. Essi cioè non sapranno, ad un certo punto, quale scelta operare di fronte a situazione completamente antitetiche, le quali, proprio con la antiteticità che la contraddistingue, generano un forte senso di crisi che fa della comunità un esser profondamente malato. Ci troviamo così indubbiamente in un handicap sociale che occorre assolutamente superare, se la comunità vuole riacquistare la salute perduta.

Ma cosa dunque bisogna fare?

Se davvero si intende risolvere il problema, non è difficile la soluzione che consente di raggiungere lo scopo. Basta incanalare i messaggi pubblicitari in una direzione non difforme da tutto ciò che costituisce motivo di aggregazione e di compattezza nella società. Gli individui e i gruppi che si servono della pubblicità per il perseguimento esclusivo dei loro affari, grideranno allo scandalo antidemocratico, poiché diranno che essi vengono penalizzati in quanto si impedisce loro di esplicare a pieno la propria attività. Con questo ragionamento però non fanno che pretendere la salvaguardia dei loro interessi particolari, senza tenere in alcun conto degli interessi degli altri membri della comunità, che si differenziano dai loro, chiudendosi in un vero egoismo che non può essere accettato nel modo più assoluto. La comunità sociale appartiene a tutti i membri che ne fanno parte perché sono loro che le hanno dato la vita. Essa ha dunque, come preciso dovere di contemperare gli interessi di tutti, facendoli procedere in armonico equilibrio. Se manterrà un atteggiamento fermo nel fare osservare le regole che tendono a valorizzare la dignità paritaria di ogni singolo non fallirà lo scopo, ma ciò si verificherà soltanto se al suo interno la coerenza avrà la massima applicazione e ci si convincerà che la vera democrazia non può consentire un diverso modo di atteggiarsi.

Fine!