L’Età dell’oro viene invocata, in modo particolare, nei momenti drammatici del vivere umano.
In quell’età, gli uomini vivevano nella totale armonia non esistendo nulla che li dividesse. Tutto era in comune e nessuno pensava a commettere abusi nei confronti di chicchessia. Ad un certo punto però le cose cominciarono a cambiare. Si diffusero le ruberie, si praticarono le sopraffazioni, l’egoismo, il possesso. Ci si trovò, insomma, nella quotidianità abituale, che tutti conosciamo.
Per spiegare questa caduta del genere umano, sono state date versioni diverse, ma tutte concordano nel riconoscere che l’uomo ha perduto l’innocenza originale ed ha preso coscienza di sè, prendendo atto delle sue possibilità e delle sue limitazioni.
Di qui è scaturito l’atteggiamento contradditorio che caratterizza l’animo dell’uomo. Il rimpianto per quanto ha perduto e l’impegno deciso a modificare in meglio la situazione presente. Talvolta le due posizioni si conciliano. Infatti capita anche che nell’animo dell’uomo si insinui la convinzione della necessità di produrre ogni sforzo per superare il disagio arrecato dalla caduta di uno stato originale di felicità allo scopo di riuscire a recuperare la condizione perduta. Si tratta di una convinzione escatologica, secondo la quale il nostro sforzo ci consente di attingere la salvezza finale.
Questo è, senza dubbio, un atteggiamento che merita un grande rispetto, sebbene palesi in se un notevole utopismo. Meno rispetto merita quell’atteggiamento che ritiene di porsi in una posizione di attesa inerte nella convinzione che l’età dell’oro verrà: o meglio dire, tornerà ugualmente pur senza che si profonda alcun impegno.
In questo caso, gli uomini si affidano completamente al fato, abdicando in tutto la loro capacità di pensare e alla loro possibilità di azione.
Questo atteggiamento era caratteristico del Medio Evo, quando si viveva nella certezza nell’imminente avvento del Regno di Dio. Io penso che l’uomo incorra nell’errore di trascendere se stesso e di non accettare la propria condizione, quando si riduce a rimpiangere la felicità perduta, o quando vive passivamente nell’attesa del Regno di Dio, il quale lo liberi da tutti i mali, rendendolo appagato in tutti i suoi desideri.
Negli atteggiamenti ora segnalati, la condizione umana perde il suo valore e la sua dignità, poiché la si considera una cosa vile, mentre è uno degli eventi tra i più prodigiosi che siano apparsi sulla terra.
Secondo me, l’Età dell’Oro consiste nell’attiva operosità dell’uomo per elevare sempre di più la propria condizione, distanziandola infinitamente dallo stato animalesco, che mantiene costante la sua identità.