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Comunemente si è portati a pensare che i fatti vivano staccati dalle idee. Anzi che essi costituiscano rispetto alle idee una realtà assestante che nulla viene ad avere a che fare con quelle. Lo stesso discorso, naturalmente, vale anche per le idee, giacchè le si suppone bastevoli a se stesse e niente affatto dipendenti dai fatti nella loro sussistenza.

Tra il ‘600 e il ‘700, una volta che cessò di avere vita il pensiero del Rinascimento, quando ormai aveva dato origine ed alimento al pensiero moderno, ponendolo in grado di affermarsi e svilupparsi appieno, grazie ai fermenti vitali di cui lo aveva dotato, nacquero due correnti filosofiche che ebbero la pretesa di teorizzare la validità assoluta delle tesi che ho esposto poco sopra: l’Empirismo e il Razionalismo.

 

L’Empirismo, fondandosi su quello che più tardi sarebbe stato chiamato metodo fisico, sosteneva che ogni fonte di conoscenza deriva dall’esperienza effettuata dai nostri sensi. Sono i dati esterni a noi l’unico punto valido di riferimento per conoscere la realtà. L’empirico, il particolare, il sensibile sono gli elementi esclusivi da cui può prendere le mosse ogni indagine conoscitiva. Tutte le altre vie, che prescindono da questa, sono false e non possono portare che a conclusioni errate.

Il Razionalismo, dal canto suo, affermava che i principi della realtà possono essere colti solo dall’intuizione e dedotti dalla ragione. L’unico metodo valido in fatto conoscitivo è quello matematico, che fonda le sue basi sull’universale, sul razionale, sull’apriori. Il nostro giudizio, o criterio conoscitivo, è analitico. Vale a dire che si limita esclusivamente ad analizzare i pricipii della realtà, e, mediante tale analisi, entra in possesso pienamente della sua conoscenza. In questo caso, il soggetto conoscente non fa altro che esplicare quanto è già contenuto nelle proprie facoltà mentali non aggiungendo nulla a quelle che già aveva.


 

Kant considerò giustamente queste due correnti di pensiero unilaterali e quindi non adatte a costituire un fondamento vero alla conoscenza. Entrambe, infatti, secondo Kant, trascuravano un aspetto della realtà, quando applicavano ad essa i criteri conoscitivi, ottenendo conseguentemente risultati molto lontani dalla concretezza. Così il razionalismo si rivela incapace di cogliere l’aspetto particolare delle cose, mentre l’empirismo non riesce a scorgere quanto vi è di universale in ciascuna di esse. Kant concludeva che era necessario escogitare un criterio nuovo di conoscenza che, accogliendo quanto vi era di valido nell’una e nell’altra proposta conoscitiva, andasse al di là di esse, superandone l’unilateralità per dar luogo ad un fondamento vero e scientifico della conoscenza. Questo poteva essere ottenuto mediante la costituzione della sintesi a priori, che inglobava in se sia il particolare, privilegiato dagli empiristi, sia l’universale privilegiato dai razionalisti.

Kant si vantò di aver compiuto in filosofia la stessa rivoluzione radicale che Copernico aveva compiuto circa due secoli prima in astronomia. Ed aveva ragione di dovere paragonare la sua rivoluzione a quella di Copernico perché entrambe determinarono una svolta, non solo nel modo di pensare dell’umanità, ma anche nel suo modo di vivere e di comportarsi.

A noi non interessa di illustrare come la rivoluzione kantiana non sia rimasta, contrariamente alle apparenze ed al sentire comune, ristretta al campo filosofico, ed abbia improntato di sè il procedere della scienza nei vari campi, bensì mostrare come i fatti e le idee debbano essere posti in stretta correlazione e come risultino vuoti ed astratti, quando si pretende di considerarli al di fuori di tale correlazione. La sintesi a priori di Kant ha stabilito, secondo il mio modo di vedere, il giusto rapporto in cui stanno i fatti e le idee e, come conseguenza, l’atteggiamento che noi uomini dobbiamo assumere di fronte ad essi quando esprimiamo i nostri giudizi per interpretare la realtà che ci circonda.