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In ogni momento della storia, la rivoluzione ha espresso un cambiamento totale della realtà esistente. Ma qual è il suo senso? Rappresenta un progresso o un regresso? è bene che si verifichi oppure è auspicabile che il processo storico si attui con gradualità secondo criteri indicati e seguiti dall’evoluzione? Sono questi, per lo più, interrogativi retorici giacché la storia ha già risposto, dimostrando come, al suo interno, si sia verificata la rivoluzione, ma anche l’evoluzione secondo le circostanze. Non uniformi però sono state, e lo sono tutt’ora, le prese di posizione nei confronti sia dell’evoluzione che della rivoluzione.

Il Positivismo ottocentesco, che esprimeva gli ideali della classe borghese, aborriva qualsiasi forma di rivoluzione nell’ambito della società, poiché pensava che questa avrebbe potuto subire dalla rivoluzione soltanto sconvolgimenti, i quali le avrebbero impedito il suo normale sviluppo che solamente l’evoluzione poteva garantirle. I vari filoni del Marxismo hanno considerato la rivoluzione come il toccasana delle difficoltà in cui, dal punto di vista sociale, si è venuta a trovare la parte più debole della popolazione componente la società capitalistica: il proletariato operaio e contadino. Quel che importa sottolineare è che gli ammiratori della rivoluzione seguendo spesso, anche senza volere, il criterio adottato dal razionalismo idealistico nella concezione del procedere della storia, sono stati ciecamente convinti che la rivoluzione fosse sempre apportatrice di una situazione migliore rispetto a quella che aveva superato. E questo modo di vedere ha avuto tanto successo fino a divenire un luogo comune. Se però approfondiamo bene la cosa, finiamo per scoprire che ciò non è affatto vero. Infatti tutto dipende dall’angolo visuale da cui si guardano i risultati che la rivoluzione consegue. I fascisti, per esempio, pensavano che in Italia, con la rivoluzione che avevano effettuato, avessero instaurato uno Stato che finalmente aveva dato ai cittadini, pace, stabilità e tranquillità dopo i tanti torbidi che si erano avuti nell’immediato Dopoguerra. La società fascista era, insomma, la società ideale, che gli italiani aspettavano da tanto tempo. Di questo avviso, ovviamente, non erano i socialisti, i comunisti, i veri liberali e la maggioranza dei cattolici. Tutti costoro erano convinti che il fascismo avesse instaurato una dittatura opprimente che, facendo gli interessi di pochi, -gli abbienti-, avesse dato luogo a una deplorevole frustrazione per tutti gli altri. I comunisti, poi, avendo aderito al Comintern, l’internazionale comunista che si era costituita a Mosca nel 1919 sotto il patrocinio della Russia sovietica, pensavano, che in Russia si era realizzata, per mezzo della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, una situazione particolarmente benevola per tutta l’umanità. Finalmente le masse popolari erano sottratte all’emarginazione in cui le avevano tenute da sempre le classi abbienti e poste in grado di conseguire la loro emancipazione per cui ogni forma di disuguaglianza veniva ad essere cancellata. I democratici mettevano, invece, in evidenza che in Russia i Bolscevichi avevano instaurato una tra le tirannie più spaventose, la quale impediva lo sviluppo spontaneo -e quindi realmente vero- dei singoli individui, cosicché, in definitiva, tutta la società avrebbe subito una mostruosa deformazione.