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Il mio modo di interrogare e di valutare gli alunni.

Fin da quando ho cominciato ad insegnare, mi sono reso conto di quanto l’interrogazione fosse un momento importante nel fare scuola. Essa mette a frutto l’attività che l’insegnante ha dispiegato nelle sue lezioni e quella che gli allievi hanno concluso nelle ricerche e negli studi.

 

Negli anni Settanta, quando la scuola italiana ha vissuto uno dei momenti più incerti e disorientati della sua storia, dominata com’era da una demagogia piena di parole e vuota di idee, si era diffusa la deleteria tendenza ad abolire l’interrogazione col pretesto che essa serviva soltanto a mortificare gli studenti poiché li trasformava in veri e propri imputati di un tribunale inquisitorio di cui il docente non era che il giudice severo e torturatore. Secondo questa concezione pedagogica, l’interrogazione era anti-educativa e quindi doveva essere depennata dall’attività scolastica di qualsiasi tipo. Tutt’al più si ammetteva una verifica di gruppo nella quale rispondeva alle domande solo chi si sentiva di farlo, mentre doveva essere lasciato in pace chi non si sentiva.

Più che come verifica del sapere degli allievi, l’interrogazione era concepita come loro spontanea partecipazione ad una discussione su alcuni argomenti d’una certa materia scolastica. Discussione da cui veniva bandito ogni rigore giuridico inquisitorio, nido e culla del più abominevole nozionismo, come si diceva allora, ma dalla quale scompariva soprattutto il rigore logico, in quanto tale discussione veniva condotta sul filo della più assoluta genericità e finiva per risolversi in un mare magnium di parole nelle quali la serietà scientifica veniva irrefutabilmente a perdersi in un naufragio privo di scampo per la sua vita. Nonostante il contrario parere di molti, quelli erano, per la scuola italiana, tempi tutt’altro che luminosi. Si scambiava l’autorità con l’autoritarismo e, combattendo quest’ultimo, si era finito per distruggere la prima. Il trionfo era stato attribuito non alla libertà vera, che implica in sé, accanto alla demolizione del vecchio, la costruzione del nuovo, bensì a quella falsa, su cui si fonda l’anarchia, capace di dare luogo alla ribellione per la ribellione. La ribellione dà luogo, come ci ha insegnato ampiamente la storia, alla distruzione di ogni forma di società, che è quanto dire.. la distruzione non solo di ogni forma di civiltà, ma anche di ogni possibilità di vita umana, giacché nessun individuo umano è in grado di vivere senza la collaborazione con gli altri uomini.

In politica, credo di aver avuto da sempre idee progressiste nel senso che mi sono schierato, ogni volta che ne ho avuto l’occasione di farlo, per una perequazione sociale a tutti i livelli e per la assoluta salvaguardia della dignità umana in tutte le sue benefiche manifestazioni e in tutti i valori che ha saputo esprimere. Non ho mai condiviso l’anarchia perché, a prescindere dalla buona fede di chi la professa, conduce in un vicolo cieco a causa dell’utopia poco sensata che ne è alla base. La libertà, come vorrebbe l’anarchia, senza l’autorità diventa libertarismo, allo stesso modo in cui l’autorità senza la libertà è autoritarismo.


 

Negli anni Settanta, quando era di moda dire sempre di sì agli studenti ed era un grave peccato, che si pagava con l’impopolarità, effettuare le interrogazioni, camminai contro corrente. Dissi di no agli studenti quando lo ritenevo opportuno, senza tuttavia rifiutarmi mai di discutere con loro, ed effettuai le interrogazioni con una certa frequenza, proprio come faccio ancora oggi. Divenni impopolare, e, tra quegli studenti che non ebbero occasione di sentire le mie lezioni, si diffuse la voce che fossi ispirato da idee fasciste. La cosa mi amareggiò un poco. Ma mi confortai pensando al fatto che l’attributo di fascista veniva elargito assai spesso in maniera impropria ed a tante persone che sicuramente non lo meritavano.

Ripercorrendo mentalmente quel periodo della mia carriera professionale, riconosco che ebbi abbastanza buon senso per comportarmi come mi sono comportato allora, visto che l’evolversi degli eventi ha finito per darmi ragione. Oggi nessun docente si sogna di far fare i compiti in gruppo, ne di condurre in gruppo le interrogazioni, per giunta quando è comodo per gli studenti, e di attribuire loro il cosiddetto sei politico. Lo ritenni anche allora una cosa errata e non mi adattai a sottoscrivere quella situazione. Molte dispute verbali dovetti sostenere con gli allievi più vivaci e più intelligenti perché, guardacaso, erano proprio gli alunni più intelligenti a farsi sostenitori ad oltranza di una concezione pedagogica così priva di senso, spiegando loro che idee siffatte non potevano che portare ad un lassismo generale. Ciò che puntualmente si verificò.

Rammentando quei tempi e quelle dispute oggi con gli allievi più polemici di allora, ho la soddisfazione di sentirmi dire che avevo ragione e di essere ringraziato per aver assunto un atteggiamento fermo e coerente nell’indirizzarli verso l’ardua strada dell’attività e della responsabilità.


 

Venendo al nocciolo della questione, posta già nel titolo di questo paragrafo, spiegherò come procedo nell’interrogare gli allievi. Innanzitutto voglio precisare che, quando interrogo, non assumo affatto i panni del giudice inquisitore, bensì quello di chi intende dialogare da pari a pari. Me ne guardo bene dal correggere in maniera brusca o ironica, perché ciò bloccherebbe il mio allievo interlocutore, il quale non riuscirebbe ad andare avanti nel suo discorso. Assumo inoltre un atteggiamento protettivo verso l’alunno che sto interrogando, in quanto gli vengo incontro nel momento in cui egli si sta perdendo, nel senso che non riesce più a tenere il filo del discorso, perché ha dimenticato qualche cosa per cui non sa più connettere gli argomenti, oppure perché non trova le parole adatte per comunicare ciò che vorrebbe esprimere. Cerco, insomma, di trovare tutti gli espedienti possibili per metterlo a suo agio e farlo parlare con la massima tranquillità. Un’altra caratteristica del mio modo di interrogare e quello di bandire il nozionismo per quanto è possibile. Non mi preoccupo quando un alunno non mi ricorda una data, il titolo di un opera o un avvenimento della vita di un autore. Pretendo che siano ricordate le nozioni basilari per le discussioni critiche e per l’enucleazione dei concetti.

Posso affermare con soddisfazione, che il metodo funziona bene. Gli alunni imparano ad esporre con parole e concetti propri, acquisendo un’indipendenza e una maturità intellettuale di cui vado fieramente orgoglioso. La valutazione la effettuo in modo graduale. Un primo giudizio chiaro lo dò quando faccio un’interrogazione in cattedra e lo traduco addirittura con un voto. Uso il voto perché mi sembra più capace di esprimere una valutazione precisa. Infatti i meno o i più che faccio seguire al voto stesso, esprimono con grande chiarezza, a mio avviso, le sfumature valutative che intendo mettere a punto. Il giudizio dell’interrogazione in cattedra, per quanto sia importante, non è l’unica fonte che mi guida nella valutazione finale. Questa scaturisce da tutta una serie di interventi che ogni allievo mi fa dal proprio posto, sia di sua spontanea volontà, risolvendo le difficoltà di colui che è interrogato in cattedra, sia dietro mio richiamo. Questi mi consentono di appurare se studia con continuità, la maturità di giudizio che sta acquistando, l’interesse che porta per la materia e le sue attitudini per essa. Quando sono riuscito a farmi un concetto chiaro di come un alunno espone la materia, delle capacità che possiede e dell’impegno che profonde nello studio, esprimo la valutazione finale, privilegiando, solo quando vi sono costretto da una estrema ratio, l’impegno sulle capacità. L’impegno significa la responsabilità di un individuo, le capacità esternano la sua intelligenza. Pur riconoscendo all’intelligenza il notevole peso che conferisce in ogni circostanza della vita, sento l’esigenza di attribuire un premio maggiore alla responsabilità, poiché impersona la serietà e l’equilibrio in ogni campo. D’altra parte, la scuola non deve allevare geni: quando li trova, deve certo coltivarli e favorirli con tutti i mezzi a sua disposizione, tanto più che sono assai rari: ma plasmare uomini seri, responsabili ed equilibrati, perché sono proprio loro che costituiscono il nucleo basilare della società sana e laboriosa.

Fine terza parte.

Saggio composto tra luglio e settembre del 1983.