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Venendo al nocciolo della questione, posta già nel titolo di questo paragrafo, spiegherò come procedo nell’interrogare gli allievi. Innanzitutto voglio precisare che, quando interrogo, non assumo affatto i panni del giudice inquisitore, bensì quello di chi intende dialogare da pari a pari. Me ne guardo bene dal correggere in maniera brusca o ironica, perché ciò bloccherebbe il mio allievo interlocutore, il quale non riuscirebbe ad andare avanti nel suo discorso. Assumo inoltre un atteggiamento protettivo verso l’alunno che sto interrogando, in quanto gli vengo incontro nel momento in cui egli si sta perdendo, nel senso che non riesce più a tenere il filo del discorso, perché ha dimenticato qualche cosa per cui non sa più connettere gli argomenti, oppure perché non trova le parole adatte per comunicare ciò che vorrebbe esprimere. Cerco, insomma, di trovare tutti gli espedienti possibili per metterlo a suo agio e farlo parlare con la massima tranquillità. Un’altra caratteristica del mio modo di interrogare e quello di bandire il nozionismo per quanto è possibile. Non mi preoccupo quando un alunno non mi ricorda una data, il titolo di un opera o un avvenimento della vita di un autore. Pretendo che siano ricordate le nozioni basilari per le discussioni critiche e per l’enucleazione dei concetti.

Posso affermare con soddisfazione, che il metodo funziona bene. Gli alunni imparano ad esporre con parole e concetti propri, acquisendo un’indipendenza e una maturità intellettuale di cui vado fieramente orgoglioso. La valutazione la effettuo in modo graduale. Un primo giudizio chiaro lo dò quando faccio un’interrogazione in cattedra e lo traduco addirittura con un voto. Uso il voto perché mi sembra più capace di esprimere una valutazione precisa. Infatti i meno o i più che faccio seguire al voto stesso, esprimono con grande chiarezza, a mio avviso, le sfumature valutative che intendo mettere a punto. Il giudizio dell’interrogazione in cattedra, per quanto sia importante, non è l’unica fonte che mi guida nella valutazione finale. Questa scaturisce da tutta una serie di interventi che ogni allievo mi fa dal proprio posto, sia di sua spontanea volontà, risolvendo le difficoltà di colui che è interrogato in cattedra, sia dietro mio richiamo. Questi mi consentono di appurare se studia con continuità, la maturità di giudizio che sta acquistando, l’interesse che porta per la materia e le sue attitudini per essa. Quando sono riuscito a farmi un concetto chiaro di come un alunno espone la materia, delle capacità che possiede e dell’impegno che profonde nello studio, esprimo la valutazione finale, privilegiando, solo quando vi sono costretto da una estrema ratio, l’impegno sulle capacità. L’impegno significa la responsabilità di un individuo, le capacità esternano la sua intelligenza. Pur riconoscendo all’intelligenza il notevole peso che conferisce in ogni circostanza della vita, sento l’esigenza di attribuire un premio maggiore alla responsabilità, poiché impersona la serietà e l’equilibrio in ogni campo. D’altra parte, la scuola non deve allevare geni: quando li trova, deve certo coltivarli e favorirli con tutti i mezzi a sua disposizione, tanto più che sono assai rari: ma plasmare uomini seri, responsabili ed equilibrati, perché sono proprio loro che costituiscono il nucleo basilare della società sana e laboriosa.

Fine terza parte.

Saggio composto tra luglio e settembre del 1983.