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L’atteggiamento della borghesia rispecchia, se si vuole, il senso dei valori.

Fornire con precisione una definizione di che cosa siano i valori, non è facile anche se non è impossibile. La realtà in cui l’uomo vive, non è tutta in suo possesso. Egli la controlla solamente in modo parziale. Ciò non toglie tuttavia che la debba studiare continuamente per dominarne i tratti più ampi possibili. L’uomo, in definitiva, non deve assumere un atteggiamento rinunciatario di fronte alla realtà che lo circonda e lo costituisce, ma non deve nemmeno illudersi di riuscire ad averne un totale e perfetto controllo. Egli deve rendersi conto che si trova di fronte alla realtà nella stessa situazione del filosofo di fronte alla ricerca descritto da Platone nel mito di Eros.

Conoscendola soltanto parzialmente, sente l’esigenza di studiarla per conoscerla tutta. Ma, nello stesso tempo, sa di essere limitato per assolvere ad un tale compito. Questa situazione di chiusura e di apertura di limite e di illimitato, di impotenza e di potenza, costringe l’uomo a muoversi in direzioni diverse e talora contrapposte. Nasce da qui il suo vario atteggiarsi nell’approccio con la realtà esterna e nella conduzione della propria vita. Ma nasce anche, sempre da qui, la sua concezione dei valori. A questo punto, però, tutto si complica. Mi sembra di dover dire che, per sbrogliare la matassa, occorre tanta diligenza, ma anche tanta prudenza ed umiltà.

Il vero senso della condizione umana si rivela più che mai in questa circostanza. Ed ecco alcuni tremendi interrogativi. E’ l’uomo che determina i valori, o ne è determinato? I valori sono oggettivi o soggettivi? Esistono indipendentemente dall’uomo o è l’uomo che li pone?


Menti eccelse hanno disputato a lungo su queste questioni. Eppure dopo tanti e tanti secoli di dispute non si è riusciti ancora a venirne a capo. Nell’Antichità e Medioevo si è sostenuto che i valori erano esclusivamente oggettivi. L’uomo doveva prendere atto della loro esistenza, accettare l’ordinamento gerarchico che presentavano ed essere consapevole di potervi apportare alcuna modificazione. Erano tempi in cui l’anima umana fungeva esclusivamente da specchio del mondo esterno, o veniva concepita come in totale balìa della divinità, costretta ad accettare passivamente le sue imposizioni. Il Rinascimento portò un’innovazione radicale. Le dottrine che relegavano l’uomo nella passività, furono abbandonate e, al loro posto, si approvarono quelle che inneggiavano al suo attivismo. L’uomo venne proclamato centro dell’Universo. Egli conteneva in sé, in misura ridotta, tutto ciò che l’Universo comprendeva in modo ampio. Perciò fu definito un “microcosmo” e in rapporto all’universo, che era il “macrocosmo”. L’uomo non viene più considerato una cosa abbietta e vile, come era avvenuto nel Medioevo, bensì l’elemento principe dell’Universo. Dio ha creato la natura in sua funzione, giacché egli è destinato a disvelarne i segreti e a dominarla. In tal modo l’uomo cerca di avere il dominio della natura, in primo tempo con la magia, successivamente con la creazione della scienza, la quale, secondo l’ideale di Francesco Bacone, consentirà all’uomo di fare della natura, almeno in maniera parziale, il proprio regno.

A partire dalla nascita della scienza moderna, l’uomo svilupperà un preciso metodo d’indagine nei confronti della realtà naturale. Le scuole indagatrici saranno fondamentalmente due: l’empiristica e la razionalistica. La scuola empiristica riterrà che la realtà si può conoscerla solo se l’indagine prende le mosse dell’esperienza sensibile, da ciò che è particolare ed empirico. La scuola razionalistica invece penserà che la realtà abbia come fondamento i principii della ragione, e che quindi solo partendo da essi possiamo entrare in possesso della sua conoscenza. Queste due scuole, tuttavia, risultarono inadeguate a fondare una conoscenza vera. Perciò Kant, come ho già detto in altra parte di questo scritto, assumendo quanto l’una e l’altra presentavano di valido, realizzò la sintesi a priori, con la quale dotò la conoscenza di un metodo adeguato alla sua fondazione.

La sintesi a priori di Kant affermava la necessità che fatti ed idee fossero strettamente correlati affinché la conoscenza potesse attuarsi in modo valido; determinava anche dal punto di vista della filosofia moderna il sito dove andavano collocati i valori. Questi, infatti, non possono che occupare quel tratto di spazialità spirituale che viene a trovarsi interposto tra i fatti e le idee. E’ da dire subito che la concezione che si aveva dei valori nel Mondo Antico ed in quello Medioevale, risulta priva di fondamento perché esclude ogni azione partecipativa dell’uomo alla sua fondazione. Non si capisce, infatti, come l’uomo potesse conferire il senso di valori a una gerarchia di concetti che egli non contribuiva a formulare. Le Idee platoniche, costituendo il mondo intellegibile, erano i modelli fondanti il mondo sensibile. Ogni oggetto del mondo sensibile era una imitazione (o una partecipazione) di un’idea. Le idee erano disposte gerarchicamente in funzione dell’Idea del bene. Questa le illuminava e le qualificava, nel senso che ognuna di esse aveva tanto valore a seconda della posizione che occupava rispetto a quella, e a seconda della luce che da quella riceveva, visto che era la luce dell’Idea del Bene a dare ad ogni altra idea la vita ed il senso di esistere. Non diversamente andavano le cose nell’Etica di Aristotele. Le virtù etiche occupavano nella struttura del mondo propriamente umano – di quel mondo cioè fondato non dalla necessità ma dalla libertà- un gradino inferiore alle dianoetiche. Le prime concernevano l’azione che era la regola di cui si basava tutta la vita pratica, le seconde esprimevano la contemplazione, che regolava il mondo del pensiero. Tra le virtù dianoetiche, la sapienza era quella che si poneva più in alto di tutte perché possedeva in sommo grado l’ideale contemplativo. Ad essa si ispirava il saggio, la cui vita, serena ed autosufficiente, raggiungeva la perfezione. Il Cristianesimo, benché si rifacesse ad una concezione spirituale molto diversa, si muoveva, per quanto atteneva alla concezione dei valori, nello stesso ambito dottrinale del platonismo e dell’aristotelismo, da cui non differivano in nulla le altre filosofie del Mondo Antico. Le dottrine agostiniane sulla conoscenza, i gradi di ascesa a Dio che proponevano i mistici, l’itinerario della mente verso Dio di San Bonaventura, la morale di San Tommaso D’Aquino, ecc., prospettavano una scala oggettiva di valori, che l’uomo accettava con umile sottomissione poiché il solo pensare di modificarla implicava il peccato, in quanto creava uno sconvolgimento dell’ordine naturale e morale stabilito da Dio.


La giusta via per l’individuazione del modo di concepire i valori prende l’avvio, dunque, solo dal momento in cui Kant concepisce la sintesi a priori; e soltanto da quel momento che di valori si può veramente parlare, perché l’uomo è veramente posto nella condizione di poter pronunciare il proprio giudizio, e i valori non possono che scaturire dal giudizio dell’uomo in quando sono ad esso relativi.

Il valore è dovuto ad una reazione della coscienza umana ad un dato di fatto. Tale reazione va oltre il puro fatto. Lo trasforma imponendogli una qualificazione, valutandolo positivamente o negativamente, apprezzandolo o disprezzandolo. Il valore implica una scelta da parte della volontà umana. Perciò esso non si può realizzare senza la libertà. Allora si dovrà dire che il valore dipende esclusivamente dalla soggettività di colui che giudica. In parte si in parte no. Innanzitutto bisogna ricordare che, oltre ai giudizi di valore esistono anche i giudizi di fatto. Un giudizio storico, per esempio, è sempre un giudizio di fatto perché esprime semplicemente un atto conoscitivo senza alcuna valutazione. Questo avviene per un racconto che si fa ad un amico di un avvenimento a cui si è assistito, o per una testimonianza che si reca in tribunale quando ci viene richiesto di portare il nostro contributo alla giustizia su qualche situazione scabrosa di cui siamo a conoscenza. In tutti questi casi noi siamo dei moderatori che riferiscono ciò che sanno senza pronunciarsi al riguardo. La nostra partecipazione ai fatti si è limitata ad una presa d’atto dell’accaduto e nulla più. Ben altra cosa è un giudizio di valore. Qui il fatto ci coinvolge in prima persona. Noi ci sentiamo in dovere di intervenire di fronte al fatto; di esprimere il nostro apprezzamento o il nostro biasimo a riguardo. Il nostro intervento ha chiaramente una diretta influenza sul fatto. Il fatto, a causa del nostro intervento, non rimane più quello che era ma subisce una modifica nella direzione che il nostro intervento gli ha impresso. Non c’è dubbio quindi che il giudizio di valore non contenga una marcata impronta del soggetto che lo esprime. Ciò non toglie però che la soggettività non debba fare i conti con l’oggettività. D’accordo che, quando pronunciamo un giudizio di valore su un fatto, il fatto viene modificato nella direzione voluta dal nostro giudizio. Ma ciò non significa che il fatto venga superato o annullato dal giudizio. Il fatto fa parte dell’aspetto oggettivo del reale, e, di conseguenza, non è mai riducibile alla soggettività. Di questo ha dovuto accorgersi lo stesso Fichte –e con lui tutti coloro che hanno preteso di seguirne pedissequamente la dottrina - che ha affermato che l’oggetto altro non era che una creazione del soggetto. Infatti, l’Io che infinito, libero ed incondizionato, onde potersi affermare come tale, è costretto a porre di fronte a se il non-Io, il quale lo finitizza e lo condiziona. Quindi si formano i vari io empirici, a cui si contrappongono altrettanti non-io empirici. Ma c’è di più. I vari io empirici, che hanno come caratteristica di essere morali, intendono tornare all’io originale, che è l’ideale che si prefiggono di raggiungere. Ma per potersi muovere in tale direzione, dovranno superare il non-Io che sta loro di fronte. Una volta che lo abbiano superato, questi si pone di nuovo davanti a loro, ripetendo il processo all’infinito.

Fichte aveva pensato di ovviare all’aporia prodotta dalla cosa in sé di Kant, eliminando la cosa in sé, la quale nel pensiero di Kant costituisce il fondamento della realtà esterna data dai fenomeni, con il sostenere che la realtà esterna esisteva solo perché veniva posta dall’Io. Riteneva con ciò di aver reso onnipotente la soggettività, poiché l’oggettività non era che una sua creazione. Ma, come si è visto poco sopra, ogni suo sforzo è risultato vano poiché l’Io, pur essendosi auto-posto, non ha potuto essere tale se non in forza del non Io, che gli stava di fronte. E non è vero che il non-Io è frutto di una creazione spontanea dell’Io. E’ vero invece che l’Io è stato obbligato a porre il non Io, perché altrimenti egli stesso non sarebbe potuto esistere. Allo stesso modo non trova giustificazione la morale fichtiana se i vari io empirici non hanno davanti a loro altrettanti non-io empirici da superare in una ripetenza infinita.

Una volta che si è dimostrato che il fatto è una realtà che ha una sussistenza sua propria, la quale mai la coscienza del soggetto potrà incorporare in se stessa e tantomeno dargli l’esistenza, come aveva ritenuto Fichte e i suoi più stretti seguaci, è necessario fare i conti con esso se si vuole trattare correttamente la questione dei valori.


I valori non sono in assoluto ne soggettivi ne oggettivi, ma scaturiscono da un incontro della soggettività e della oggettività di cui è costituito il Reale. Fuori dalla coscienza del soggetto esiste certamente una struttura gerarchica di esseri e di idee, che la coscienza è costretta a tenere in considerazione quando esprime i suoi giudizi di valore. Essa non può non riconoscere che una ameba è meno complessa di una pecora e che questa, a sua volta, è meno complessa di un primate superiore e che l’uomo è più complesso di qualunque primate. Questo fatto non lo si può certamente negare dal momento che la teoria dell’evoluzione ne ha dimostrato la sua incontrovertibile scientificità. Allo stesso modo la coscienza dovrà riconoscere che l’ignoranza occupa, secondo il criterio della ragione, un gradino inferiore rispetto alla cultura. E così giudicherà del disordine rispetto all’ordine, della disarmonia rispetto all’armonia, dell’oscurità rispetto alla chiarezza, del male rispetto al bene, e così via. Qualcuno, a questo punto, si sentirà certamente in dovere di pensare che, così discorrendo, si è tornati a considerare come valida la teoria dei valori formulata dai pensatori dell’Antichità Classica e del Medioevo. Infatti l’uomo accettava, in quei tempi, la struttura gerarchica dei valori senza discutere, conscio che la sua ragione non era in grado di modificarla. Ma io non intendo affatto rinnegare le conquiste del pensiero moderno contraddicendo ciò che ho affermato più sopra secondo cui non può essere considerata valida una teoria dei valori che l’uomo non ha contribuito a formulare. Perciò quando dico che la coscienza umana, esprimendo un giudizio di valore, è costretta a prendere atto che un’ameba, data la sua semplicità costituzionale, vale meno, secondo il criterio seguito dalla ragione, di un primate superiore e questi, a sua volta, vale meno dell’uomo in forza della maggiore complessità che lo caratterizza, non sostengo che l’uomo non prende parte attiva nel formulare il giudizio e che il suo atto di giudicare non incide nell’espressione del valore, ma soltanto non la determina totalmente, perché anche il dato esterno alla coscienza esercita in lei un indubbio condizionamento. Ma il condizionamento dell’uomo da parte del dato esterno lo ha riconosciuto e ritenuto inderogabile Kant nell’operare la sintesi a priori, con la quale l’attività del soggetto umano ha ottenuto la somma valorizzazione nel campo conoscitivo. Io sono certo, col mio modo di dibattere la problematica dei valori, di essere in linea col pensiero conoscitivo di Kant. E ciò mi rende sicuro di essere sulla strada giusta. Il fatto però che la coscienza venga condizionata dal dato esterno, non significa che essa sia assoggettata a questo e che nulla possa nei suoi confronti. Tutt’altro. Pur con tutti i suoi limiti, la coscienza possiede una capacità di intervento attivo sul dato esterno, che la rende adeguata a manipolarlo e ad elaborarlo, elevandolo in senso spirituale quando esso le si ponga dinanzi sotto le vesti della materialità, e a trascendentalizzarlo quando le si presenti sotto le spoglie della trascendenza. In questo senso, pur avendo un certo fondamento metafisico, - poiché la coscienza, nel formularlo, non può fare a meno di avvertire la necessità di riferirsi a qualche cosa che la trascende e che giammai potrà incorporare in se stessa - i valori risultano pienamente espressi dall’uomo. Infatti senza il suo intervento volontario e volitivo di apprezzamento e di qualificazione, essi non hanno alcuna sussistenza.