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Ponendomi, tuttavia, il problema del metodo, dal momento che mi ero persuaso che non ne esisteva uno oggettivo a cui i vari educatori potessero fare riferimento, mi assillava la questione di come avrei potuto fare per costruire il mio metodo; quale sarebbe stato il terreno d’indagine, se pure esisteva, in cui mi sarei dovuto muovere. Pensai che dovevo studiare i vari metodi che la storia della pedagogia ci presenta, non certo per trasceglierne uno da applicare direttamente, bensì per fornirmi i lumi per un immediato orientamento anche se provvisorio. Senza voler negare gli indubbi aiuti che ricevetti da un tale studio, dovetti constatare il fallimento delle mie speranze. Insomma, provando ad applicare i metodi dei grandi pedagogisti della storia, i conti non mi tornavano. Sentivo che quelli non erano adeguati all’elaborazione della materia che mi stava davanti: ossia la formazione dei miei alunni non coincideva con quei modi di procedere. Se ci si pensa bene, ciò appare come la cosa più naturale di questo mondo, poiché i ragazzi che stavano davanti a me non erano gli stessi che stavano davanti a Pestalozzi, Froebel, Herbart e così via. Erano diversi non solo fisicamente ed intellettualmente, ma anche ambientalmente e storicamente giacché l’educatore, nel formare i propri educandi, non può prescindere né dall’ambiente in cui opera, nè dalla situazione storica in cui si trova a vivere. Gli alunni infatti non sono vasi che il maestro riempie a suo piacimento come e quando vuole; essi invece sono delle persone con proprie caratteristiche individuali di cui bisogna tenere conto, non solo per il rispetto che è dovuto alla dignità umana, ma anche per le reazioni imprevedibili che possono suscitare. Dunque, fin da allora ho capito che il terreno su cui mi dovevo muovere per costruirmi il metodo necessario all’esercizio della mia professione di insegnante, è la continua esperienza, e su questa via mi sono posto decisamente.

Il mio criterio si basa su una attenta osservazione dei giovani che debbo formare, sulla conoscenza dei loro problemi, delle loro situazioni familiari, ambientali e sociali, del loro carattere e delle difficoltà che incontrano tutti i santi giorni. Deriva da qui la mia tolleranza della loro mancanza di puntualità nell’osservare i precisi giorni in cui debbono preparare le interrogazioni di filosofia e di storia, nel consentire non solo, ma anzi nello stimolare, ogni sorta di discussione anche se non c’è diretta attinenza con le materie che insegno. Sono infatti convinto che il mio compito di professore di filosofia e di storia non debba consistere esclusivamente nel far sì che i giovani imparino a conoscere i filosofi o i fatti storici alla perfezione, bensì nell’insegnare loro, come debbono comportarsi nella vita, quali rapporti umani sono più convenienti da tenere, come debbono realizzarsi uomini tra gli uomini.

Con questo, tuttavia, non intendo sostenere che lo studio della storia e della pedagogia è cosa inutile; anzi, penso proprio il contrario. Studiare la storia della pedagogia significa non solo conoscere le esperienze che i pedagogisti che ci hanno preceduto hanno fatto, ma anche dialogare con loro; chiedere loro consigli per risolvere le nostre difficoltà, che tuttavia incontriamo non nelle nostre riflessioni a tavolino, sibbene nel pratico agire.

Dopo vent’anni di insegnamento, confesso con molta franchezza di non essermi ancora formulato delle regole precise da adottare nel mio insegnamento perché, così facendo, avrei posto delle pastoie alla mia attività di docente, la quale abbisogna di evolversi di continuo, adottando criteri opportuni ai problemi che ogni volta debbono essere risolti. Formulare delle regole precise vorrebbe dire aver raggiunto un approdo, essere arrivati a un punto in cui fermarsi; ma ciò significa anche considerare finita la propria attività. L’attività dell’educatore, come del resto tutte le attività umane, è sempre in cammino in quanto si evolve continuamente. Quando cessa di evolversi, essa è terminata, e quindi non sussiste più. Ha cessato di vivere. Non considero ancora terminata la mia attività di educatore, e perciò non intendo formulare regole precise per il suo esercizio. Forse lo farò quando andrò in pensione. Anzi, nemmeno allora, poiché, formulandone le regole, continuerei ad esercitarla e quindi a farla evolvere. La verità è che essa può avere uno sviluppo ma non una conclusione. Solo lo storico che vorrà ricostruirne lo sviluppo, potrà rintracciare le regole che vi hanno avuto luogo, perché per lui essa è qualcosa di compiuto che può essere tranquillamente sottoposta all’indagine. Ma nessuno può essere storico di se stesso in quanto, ricostruendo la propria storia, non fa altro che continuare la sua azione operativa, creando sempre qualcosa di nuovo ed escludendo, come conseguenza, la possibilità di realizzazione di quell’indagine che, nonostante la relatività umana a cui è soggetta, agisce in un terreno oggettivo: ossia la storia.

 

Fine prima parte

Saggio composto tra luglio e settembre del 1983