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Ben diversamente le cose andarono per l’avvento del Fascismo in Italia. In questo caso, furono i fatti a prevalere sulle idee. Fu l’impetuosità dell’azione che si impose sulla riflessività del pensiero.

Il fascismo riuscì ad ascendere al governo del nostro Paese senza avere un programma politico ben definito. L’intento di Mussolini nel 1919 era solamente quello di impadronirsi del potere. Il modo in cui lo avrebbe esercitato al momento non lo interessava. Il 23 marzo di quell’anno fondava i Fasci di combattimento a Milano, e nel darle con lo stesso giorno l’annuncio in un articolo del Popolo d’Italia, confessava apertamente il suo stato d’animo e la sua intenzione dicendo che il fascismo era: “autoritario e fautore della libertà; conservatore e progressista; aristocratico e democratico a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di azione”. Il programma che accompagnava la formazione dei fasci consisteva in una serie di affermazioni propagandistiche, piene di contraddizioni e fondate nella più vacua genericità possibile, miranti a catturare l’assenso di tutti i malcontenti, ad accendere sempre di più le fiamme ardenti degli anti-clericali e a far tremare la Monarchia con la violenza della fede repubblicana che vi era infusa. Tale genericità di programma fu giustamente pagata dal fascismo, il quale nelle elezioni tenutesi nel 1919 non mandò in Parlamento nessun deputato. Ma Mussolini, nonostante un breve periodo di crisi – del resto abbastanza comprensibile se si tiene conto della circostanza -, non si perse d’animo, e, facendo tesoro del fiuto animalesco della politica, decise di aspettare momenti più propizi, essendo certo che essi alla fine sarebbero arrivati. Nelle elezioni del 1919 si verificò nella storia della politica italiana un fatto nuovo, e per certi versi abbastanza clamoroso: per la prima volta i partiti di massa ebbero una affermazione di portata notevole, mentre il partito liberale manifestava la sua crisi in maniera ormai irreversibile. Il partito socialista guadagnava 106 deputati, cifra nemmeno sognata nell’ante guerra, mentre il partito popolare, che aveva pochi mesi di vita, giacché era stato fondato da Don Luigi Sturzo nel gennaio di quell’anno, se ne vedeva eletti 100. Se il partito socialista e il partito popolare si fossero accordati avrebbero potuto governare l’Italia, facendo passare il potere da una casta ereditaria, che lo aveva mantenuto saldamente nelle proprie mani fino ad allora, alle masse popolari. La cosa non era certamente possibile perché il partito socialista e il partito popolare, per quanto fossero espressi da ceti sociali più o meno identici, militavano in sponde opposte, guidati da ideologie che in quel tempo risultavano inconciliabili. Certo è però che l’innovazione era stata grande e che la borghesia conservatrice vide con chiarezza che si era aperta una strada nuova alle forze politiche italiane, la quale poteva anche portare ad un approdo incerto per i suoi interessi. Cominciò quindi a preoccuparsi e a muoversi in quella direttiva che le parve più adeguata a volgere gli eventi a suo favore. La situazione italiana era veramente critica. Tutti i ceti sociali pensavano di avere qualcosa da recriminare a loro favore. La guerra aveva gettato tutti nella sofferenza e ognuno sentiva che la pace non l’aveva ripagato. I contadini, a cui era stata promessa nel periodo più aspro e pericoloso del conflitto una riforma agraria, invadevano quelle terre che la mancata riforma non aveva loro concesso. Gli operai delle industrie scioperavano perché il salario era troppo basso rispetto al continuo aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. I disoccupati, infiniti di numero, provocavano continui tumulti che sfociavano in atti di indubbia legalità. Infatti assaltavano i locali Municipi, saccheggiavano i forni e i negozi di generi alimentari, si scontravano apertamente con la forza pubblica, che tentava invano di porre ordine in quel mare di caos. Anche i figli della piccola borghesia, pur non essendo alle prese con l’immediata mancanza del pane, si agitavano perché la cessazione della guerra li aveva ricondotti in quegli uffici modesti, che erano quello di insegnante, di impiegato statale, di piccolo dirigente d’azienda, ecc. che non sentivano più di meritare. La guerra aveva assegnato loro un posto di comando promuovendoli ufficiali o dirigenti di organizzazioni militari, ed ora non si rassegnavano a rientrare in quei ranghi in cui un tempo erano pur stati perché non li ritenevano più confacenti alla loro personalità. Intanto gli operai sul finire dell’estate del 1920 occupavano le fabbriche, dando corso ad un avvenimento straordinario mai registrato nella storia del nostro Paese e, credo, in quella di nessun altro Paese industrializzato. Gli impiegati delle industrie, che in primo periodo avevano aderito alle azioni intraprese dagli operai, cominciarono a distanziarsene, mentre gli industriali provvedevano a far mancare il materiale necessario per il funzionamento delle fabbriche. Nella circostanza, gli operai diedero prova di grande coraggio ed assennatezza, riuscendo ugualmente a farle funzionare con le scorte di materiale disponibile e senza l’ausilio del personale dirigente. E non si può negare che le cose andassero meglio del previsto giacché la catastrofe che gli industriali aspettavano, non si verificò. Tuttavia questo esperimento, esaltato nella sua giusta luce dal torinese Ordine Nuovo di Antonio Gramsci e Umberto Terracini, non poteva andare avanti per troppo tempo. Infatti la mancanza di materie prime e di tecnici adeguati doveva necessariamente portare le fabbriche a fermarsi. A guardar bene le cose, l’occupazione delle fabbriche si rivelò, per la classe operaia, un fallimento poiché non solo non ne ricavò alcun vantaggio, ma anzi le piombò addosso la violenza delle squadracce fasciste, resa ancora più feroce dall’ardire che, a loro modo di vedere, avevano avuto gli operai e dalla connivenza delle autorità, che l’avrebbero dovuta contrastare.


Non di altrettanta assennatezza dava segno il partito socialista. Sotto l’influenza della Rivoluzione russa, pensava e predicava la necessità della rivoluzione ad opera del proletariato per risolvere i grossi problemi economici, sociali e politici degli operai italiani. Non si accorgeva però che le condizioni storiche russe, all’atto della Rivoluzione, erano molto diverse da quelle sussistenti in Italia tra il 1919 e il 1920 e che quindi una tale rivoluzione in Italia non avrebbe mai attecchito. Si aggiunga anche che il partito socialista era profondamente diviso. I moderati, che facevano capo a Turati, Modigliani e Treves, cercavano di tenere il partito sulla buona strada, tentando di fargli prendere atto della realtà politica in cui operava. Mentre i riformisti, guidati da Bonomi, intendevano collaborare con i partiti borghesi, indicando questo come unico modo per uscire dalla crisi, i massimalisti, di cui Serrati era la personalità di maggiore spicco, sostenevano che solo la rivoluzione violenta, come era avvenuto in Russia, avrebbe portato la soluzione a tutti i problemi economici, sociali e politici, che tutto il proletariato stava allora vivendo. Di fatto però i socialisti massimalisti facevano la rivoluzione soltanto con la violenza dei loro roboanti discorsi; mentre sul piano dell’azione concreta nulla operavano e nulla indicavano. Tutto quello che riuscivano ad ottenere consisteva nello spaventare ulteriormente la borghesia e indurla a cercarsi alleati validi per arginare la loro azione velleitaria e, quando fosse stato possibile, produrre il loro totale annientamento.

Ne miglior garanzia offriva il partito popolare. Questo partito, pur avendo fin dalla sua fondazione un programma organico ben articolato e assai moderno, sia in politica estera, sia in politica interna, era molto composito perché lo rappresentavano personalità di tendenze spiccatamente diverse, se non addirittura contrapposte. Convivevano in esso conservatori come Crispolti, nazionalisti come Mattei Gentili, proprietari terrieri come il barone di Ghislanzoni e giacobini come Guido Migliori. Si aggiunga poi che il capo era un sacerdote, Don Sturzo, e che, nonostante la sua conclamata indipendenza, non era immune dalla volontà politica espressa dalle direttive del Vaticano. Nel mentre le squadre fasciste attuavano una violenza sempre più irruenta, e a farne le spese erano per lo più le organizzazioni del partito socialista e la classe operaia. Così le Camere del lavoro e le sedi del partito socialista venivano sistematicamente assaltate, saccheggiate e distrutte dai fascisti senza che le forze di polizia e le autorità intervenissero a punire gli autori di tali malefatte. Il fascismo divenne ancora più ardito nelle sue azioni sovversive dopo l’esito fallimentare dell’occupazione delle fabbriche da parte degli operai. E ciò riuscì soprattutto per opera della connivenza con i fascisti delle autorità costituite. Se queste, infatti, avessero voluto davvero porre argine alle violenze fasciste, affiancandosi decisamente al popolo che non le tollerava, sarebbero di certo riuscite nell’intento, come provano i fatti di Sarzana del 21 Luglio del 1921. A Sarzana in quel giorno una squadra fascista, costituita da tutti i più facinorosi appartenenti ai fasci dei dintorni, mosse all’assalto della cittadina per abbattere l’amministrazione comunale e infliggere una bruciante sconfitta all’organizzazione operaia che vi si sussisteva. Ma la popolazione, aiutata dai carabinieri della caserma locale, respinse l’assalto dei fascisti, i quali non solo dovettero desistere dall’impresa, ma lasciarono anche sul terreno alcuni morti e feriti. E fu in seguito ai fatti di Sarzana, che Mussolini decise di firmare a Roma il 2 Agosto del 1921 il patto di pacificazione con i socialisti, in forza del quale doveva essere garantito il reciproco rispetto tra le due parti. Il patto, come era ovvio, non fu osservato dai fascisti, i quali, appena sentirono nuovamente di essere forti, ripresero a violarlo con sistematica metodicità. La violenza fascista cresceva di continuo; mentre i vertici del partito socialista, che rappresentavano le masse, facevano una resistenza passiva. I governi, che andavano succedendosi tra il 1920 e il 1921, portano tutti il marchio dell’impotenza di fronte al caos politico di quegli anni e alla montante marea fascista. Come è noto, fu il fascismo ad uscire vincitore da quella crisi con la cosiddetta “marcia su Roma” del 28 Ottobre del 1922. Ma non sarebbe stato vincitore se il re Vittorio Emanuele III non avesse attuato un vero e proprio colpo di Stato, rifiutandosi di firmare lo stato di assedio, che il presidente del consiglio Luigi Facta aveva proclamato la sera del 27. Il re, anziché firmare lo stato d’assedio, chiamò Mussolini a presiedere il governo, che sarebbe subentrato a quello di Facta, il quale, nell’occasione, presentò le dimissioni.


Il fascismo con la violenza della sua azione aveva dunque vinto malgrado la mancanza di un programma teorico, che avesse potuto fornirgli una dottrina su cui fondare la propria azione di governo. E’ stata l’impetuosità dell’azione che ha portato il fascismo al governo dell’Italia. Tuttavia per potersi reggere un tale governo ha dovuto anch’esso far ricorso alle idee. Vero è che il fascismo non ebbe mai una dottrina politica che lo abbia caratterizzato. Le sue concezioni dello Stato e della vita in generale le mutuò da fonti diverse, in parte fagocitandole senza tributare loro alcun segno di riconoscenza – come è avvenuto per le dottrine dei nazionalisti-, in parte appropriandosene semplicemente, come è stato il caso per alcune dottrine di Sorel e di Nietzsche; in parte manipolandole per dare un fondamento alla sua azione di governo, come è capitato alle dottrine dello Stato di Hegel. Giovanni Gentile ha sottolineato, talvolta, la concordanza della sua filosofia politica con il fascismo. Ma una concordanza vera con esso non la raggiunse mai. Il fascismo non sentì di identificarsi con la dottrina di Gentile se non per quel tanto che lo ritenne opportuno ed utile al dispiegamento della sua azione di governo. Il fatto è che fu Gentile ad idealizzare il fascismo, scorgendo in esso ciò che non vi era. Egli sentì il fascismo come un liberalismo dallo Stato forte, che affondava le sue radici nel nostro Risorgimento, di cui era anzi la continuazione. La filosofia di Gentile quindi rimase per molti versi estrinseca al fascismo malgrado le intenzioni del filosofo. La prova più chiara è che essa, specialmente dopo il concordato del 1929 tra lo Stato fascista e la Chiesa, fu tollerata mal volentieri dal fascismo, fino al punto da essere addirittura attaccata apertamente da Paolo Orano in parlamento nel 1937. Quando Mussolini, ormai in completa balìa del nazismo hitleriano, fondò la Repubblica Sociale, nota universalmente come Repubblica di Salò, Gentile diede il suo assenso a tale Repubblica. Ma lo fece molto probabilmente più per l’obbligo morale che gli correva verso il fascismo, in quanto lo aveva gratificato con il conferimento di varie onorificenze, che per ferma convinzione di pensiero.

Ho già detto che il fascismo non ebbe una vera dottrina di filosofia politica originale su cui basare scientificamente la propria azione di governo. Ma poiché governare è un mestiere più complesso di quanto si creda comunemente, anch’esso, per durare al potere, dovette tradurre in idee organiche e dotate di coerenza quei fatti e quelle azioni che, quando ascese al governo dell’Italia, erano incomposti e persino contraddittori.

Ma ecco, in maniera sintetica lo schema di quelle idee.

Lo Stato è il fondamento di tutta la società. Ogni aspetto della società, sia esso economico, sociale, politico, giuridico, morale, religioso, artistico, ecc., non può sussistere fuori dallo Stato, ma esclusivamente dentro di esso. Lo Stato è tutto, e nulla può essere concepito fuori di esso. Lo Stato è forte, accentrato, unitario e autoritario, nel senso che di ogni autorità è la fonte. E’ uno Stato etico per cui derivano direttamente da lui le istituzioni e le leggi. E’ dinamico e perennemente attivo. La sua caratteristica principale è l’universalità, che pone dentro di sé l’individualità, la quale si identifica con esso. La libertà dell’individuo consiste nell’obbedire in tutto alle necessità delle leggi e delle istituzioni espresse dallo Stato. L’individuo è tenuto a compiere i sacrifici che gli chiede, a credere in esso e a obbedirgli supinamente. Il motto che Mussolini raccomandava ad ogni buon fascista, era : “ credere, obbedire e combattere”. Lo Stato proteggeva, garantiva e favoriva la cultura e nelle sue varie forme: la scienza, l’arte, ecc. . Lo Stato aveva, come sua religione, la Religione cristiana, apostolica romana, che era la religione da sempre professata dagli italiani. In campo economico, lo Stato fascista era uno Stato corporativo le cui regole erano sancite ed espresse nella Carta del lavoro pubblicata nel 1927. Tutti i cittadini lavoratori erano inquadrati nelle diverse corporazioni a seconda del tipo di lavoro che svolgevano. Così, accanto alla corporazione dei datori di lavoro, vi era quella dei lavoratori, dei giuristi, degli scienziati, degli artisti, ecc ecc. Lo Stato perseguiva esclusivamente gli interessi della Nazione italiana, ne tutelava la dignità e l’indipendenza, e ne esaltava il prestigio nel mondo. Di qui la tendenza all’autarchia e all’espansione verso l’esterno per assicurare al nostro popolo il giusto spazio vitale che meritava. A questo insieme di idee, che vennero organizzandosi e strutturandosi man mano che gli anni di governo si succedevano gli uni agli altri, il fascismo aggiunse, certo a sua grande vergogna, le idee razziste, formulate ed applicate da Hitler in Germania, e le tradusse in pratica applicazione con le Leggi razziali del 1938. Con queste leggi l’incoerenza della dottrina politica del fascismo toccò l’apice; e tanti ebrei che avevano creduto nel regime, offrendogli tutto il loro contributo di pensiero e di azione ed occupandovi per questo motivo cariche di somma importanza, si videro all’improvviso gettati sul lastrico ed abbandonati come cani rognosi. Allora sperimentarono con amarezza l’irrazionalità su cui il fascismo poggiava le proprie dottrine, e provarono sulla propria pelle quanto fossero vere le ragioni per cui gli antifascisti avevano lottato, affrontando sacrifici gravissimi e pagando in tanti persino con la vita. L’attivismo irrazionale con cui il fascismo volle vivere durante il suo periodo di governo, finì per trascinarlo verso la rovina. Mussolini e i suoi collaboratori, ammesso che non sia stato solo lui a decidere, che avevano la pretesa di molto agire e di poco meditare, il 10 giugno del 1940 entrarono in guerra a cuore assai leggero poiché non fecero bene i conti né con se né con gli altri. Questa pretesa di attivismo a tutti i costi impedì loro di valutare adeguatamente i fatti e di porli, come sarebbe stato giusto, nella dovuta relazione con le idee. La guerra, è vero, fu spaventosa per l’Italia; ma per il fascismo segnò la fine di ogni suo potere, e, quel che è peggio, della sua credibilità. Gli osservatori attenti però non dubitavano affatto che il fascismo potesse finire come finì, perché sapevano bene che dietro le spalle non aveva una solida dottrina a sorreggerlo. E già nel 1925, quando Giovanni Gentile pubblicò il 21 di aprile il Manifesto degli intellettuali fascisti in cui faceva un’esposizione della dottrina del partito, Benedetto Croce rispondeva il 1 maggio con un contromanifesto, firmato da un nutritissimo numero di intellettuali coraggiosi, nel quale dimostrava che il fascismo non aveva una propria filosofia, ne poteva aspirare a possederla, date le sue idee confuse e disorganiche.


Marx ed Engels affermano nell’Ideologia tedesca che la crisi che imperversa in Germania tra gli anni trenta e gli anni quaranta –si ricordi che l’Ideologia tedesca fu scritta tra il 1845 e il 1846- è dovuta al fatto che in quel Paese la filosofia è molto sviluppata, mentre l’economia e la situazione sociale sono assai arretrate. Per uscire dalla crisi, secondo Marx ed Engels, bisognerà portare l’economia e la situazione sociale allo stesso sviluppo della filosofia, che è quanto dire, in questo caso, che i fatti debbono essere adeguati alle idee. In Germania dunque la crisi è causata dall’ideologismo, giacché le idee, non essendo nella debita correlazione con i fatti, operano nel vuoto, risultando astratte: ossia avulse dalla realtà.

La situazione del fascismo è, in un certo senso, opposta a quella della Germania di cui trattano Marx ed Engels. Non c’è dubbio che nel fascismo i fatti predominano sulle idee. Le idee sono deboli e disorganiche; e quelle che si affermano con forza sono patrocinatrice dall’azione, e perciò rimangono isolate. Si deve concludere che, nonostante la diversità, gli esiti a cui porta il fascismo sono gli stessi di quelli che aveva raggiunto la Germania tra gli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Esso, infatti, non ha mai superato la crisi che lo ha portato al potere, nonostante l’apparente consolidamento come regime politico.

C’è tuttavia da chiedersi come abbia potuto un partito politico, che è sempre vissuto di crisi, governare l’Italia per vent’anni. Non mi pare un interrogativo a cui sia difficile rispondere. La borghesia, per salvarsi dall’espansione del comunismo, il quale dopo la Rivoluzione russa stava muovendo per la sua carica rivoluzionaria a conquistare anche il mondo occidentale, ha favorito non solo in Italia, ma anche in altri Paesi dell’Europa di quel tempo, l’ascesa al potere del fascismo perché la difendesse nei suoi interessi economici e politici. E quando ciò non coincise più con gli interessi della borghesia, la stella del fascismo cominciò dovunque a declinare. La seconda guerra mondiale fece il resto, trascinando il fascismo alla rovina totale. Ma non si deve dimenticare che, se a scatenare la seconda guerra mondiale fu il fascismo, il quale in Italia e in Germania aveva perduto il senso della realtà vivendo in modo arrogante e prepotente, ad opporglisi furono le forti borghesie occidentali, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, a cui si affiancarono anche le borghesie dei territori dove i fascisti governavano.

Queste ultime borghesie, come un tempo avevano fatto di tutto per sopirlo, ora si adoperavano a svegliare nelle masse popolari il sentimento della libertà, che divenne incontenibile anche per l’opera instancabile di coloro che con il fascismo non erano mai venuti a compromesso.