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Non di altrettanta assennatezza dava segno il partito socialista. Sotto l’influenza della Rivoluzione russa, pensava e predicava la necessità della rivoluzione ad opera del proletariato per risolvere i grossi problemi economici, sociali e politici degli operai italiani. Non si accorgeva però che le condizioni storiche russe, all’atto della Rivoluzione, erano molto diverse da quelle sussistenti in Italia tra il 1919 e il 1920 e che quindi una tale rivoluzione in Italia non avrebbe mai attecchito. Si aggiunga anche che il partito socialista era profondamente diviso. I moderati, che facevano capo a Turati, Modigliani e Treves, cercavano di tenere il partito sulla buona strada, tentando di fargli prendere atto della realtà politica in cui operava. Mentre i riformisti, guidati da Bonomi, intendevano collaborare con i partiti borghesi, indicando questo come unico modo per uscire dalla crisi, i massimalisti, di cui Serrati era la personalità di maggiore spicco, sostenevano che solo la rivoluzione violenta, come era avvenuto in Russia, avrebbe portato la soluzione a tutti i problemi economici, sociali e politici, che tutto il proletariato stava allora vivendo. Di fatto però i socialisti massimalisti facevano la rivoluzione soltanto con la violenza dei loro roboanti discorsi; mentre sul piano dell’azione concreta nulla operavano e nulla indicavano. Tutto quello che riuscivano ad ottenere consisteva nello spaventare ulteriormente la borghesia e indurla a cercarsi alleati validi per arginare la loro azione velleitaria e, quando fosse stato possibile, produrre il loro totale annientamento.

Ne miglior garanzia offriva il partito popolare. Questo partito, pur avendo fin dalla sua fondazione un programma organico ben articolato e assai moderno, sia in politica estera, sia in politica interna, era molto composito perché lo rappresentavano personalità di tendenze spiccatamente diverse, se non addirittura contrapposte. Convivevano in esso conservatori come Crispolti, nazionalisti come Mattei Gentili, proprietari terrieri come il barone di Ghislanzoni e giacobini come Guido Migliori. Si aggiunga poi che il capo era un sacerdote, Don Sturzo, e che, nonostante la sua conclamata indipendenza, non era immune dalla volontà politica espressa dalle direttive del Vaticano. Nel mentre le squadre fasciste attuavano una violenza sempre più irruenta, e a farne le spese erano per lo più le organizzazioni del partito socialista e la classe operaia. Così le Camere del lavoro e le sedi del partito socialista venivano sistematicamente assaltate, saccheggiate e distrutte dai fascisti senza che le forze di polizia e le autorità intervenissero a punire gli autori di tali malefatte. Il fascismo divenne ancora più ardito nelle sue azioni sovversive dopo l’esito fallimentare dell’occupazione delle fabbriche da parte degli operai. E ciò riuscì soprattutto per opera della connivenza con i fascisti delle autorità costituite. Se queste, infatti, avessero voluto davvero porre argine alle violenze fasciste, affiancandosi decisamente al popolo che non le tollerava, sarebbero di certo riuscite nell’intento, come provano i fatti di Sarzana del 21 Luglio del 1921. A Sarzana in quel giorno una squadra fascista, costituita da tutti i più facinorosi appartenenti ai fasci dei dintorni, mosse all’assalto della cittadina per abbattere l’amministrazione comunale e infliggere una bruciante sconfitta all’organizzazione operaia che vi si sussisteva. Ma la popolazione, aiutata dai carabinieri della caserma locale, respinse l’assalto dei fascisti, i quali non solo dovettero desistere dall’impresa, ma lasciarono anche sul terreno alcuni morti e feriti. E fu in seguito ai fatti di Sarzana, che Mussolini decise di firmare a Roma il 2 Agosto del 1921 il patto di pacificazione con i socialisti, in forza del quale doveva essere garantito il reciproco rispetto tra le due parti. Il patto, come era ovvio, non fu osservato dai fascisti, i quali, appena sentirono nuovamente di essere forti, ripresero a violarlo con sistematica metodicità. La violenza fascista cresceva di continuo; mentre i vertici del partito socialista, che rappresentavano le masse, facevano una resistenza passiva. I governi, che andavano succedendosi tra il 1920 e il 1921, portano tutti il marchio dell’impotenza di fronte al caos politico di quegli anni e alla montante marea fascista. Come è noto, fu il fascismo ad uscire vincitore da quella crisi con la cosiddetta “marcia su Roma” del 28 Ottobre del 1922. Ma non sarebbe stato vincitore se il re Vittorio Emanuele III non avesse attuato un vero e proprio colpo di Stato, rifiutandosi di firmare lo stato di assedio, che il presidente del consiglio Luigi Facta aveva proclamato la sera del 27. Il re, anziché firmare lo stato d’assedio, chiamò Mussolini a presiedere il governo, che sarebbe subentrato a quello di Facta, il quale, nell’occasione, presentò le dimissioni.